Il Somalo e la Russa

Last updated on 28 Gennaio 2021

Quando sento parlare di discriminazioni, mi torna sempre in mente un “dramma shakespeariano” capitatomi qualche tempo fa. È la storia del “Somalo e della Russa”, un conflitto tra due culture, con al centro della questione una guerra generazionale.

Un giovane di apparente origine somala, ma di evidente vissuto romano, intrattiene un’animata discussione con la sua ragazza. È una giovane ribelle di ingenue speranze, di manifesta origine russa, anch’ella di marcata inculturazione capitolina. Ed ha uno sguardo gelido e determinato, come solo al di là degli Urali sanno sbandierare. Dopo di che è fatta, ha vinto lei: andranno a conoscere la famiglia venuta dal freddo. Giunti alla stazione di Trastevere, ancor prima di avvicinarsi alla magione, i due vengono intercettati alle ore 10:00 dalla nonna. La vecchia signora, che si apprestava a salire sul treno metropolitano mentre i giovani scendevano mano nella mano, li vede e inorridisce. E l’idea di una pacifica convivenza evapora sul nascere. Mentre la bionda nipote e la nonna incanutita, ma pur sempre bionda nell’animo, intraprendono una fervida diatriba in russo, il ragazzo decisamente moro, nel senso di moresco, pur non comprendendo un’acca intuisce perfettamente il tema della discussione. Poi, tra un “Vai a fare in c. nel tuo paese di m.”, una strattonata e una spinta, i due riescono a prendere il largo.

Povera ragazzina russa, era convinta che i suoi diciotto anni valessero la libertà. Ed è tutt’ora persuasa che le pazzie della nonna siano dovute alla tarda età. Col resto della famiglia sarà senz’altro diverso. Nulla di meno certo, tuttavia.

Infatti, alle 10:07, fuori dalla stazione, i due malcapitati vengono quasi investiti da un’autovettura di grossa cilindrata, che inchioda e li blocca contro un muro. È la madre, allertata dalla nonna via cellulare e immediatamente intervenuta. Come le Spetsnaz, le forze speciali di Mosca. È uguale alla figlia, con vent’anni e quaranta chili in più sul groppone, e un’aria arcigna. Il donnone scende dalla macchina e in una frazione di secondo il moretto è inchiodato a un cartellone pubblicitario. E con marcato accento russo, ma perfetto adattamento al contesto, “mamma buone maniere” lo apostrofa con espressioni degne della nonna: “Torna in Africa, negro del c.”; e anche, forse mossa da una vena razionalistica di sovietica memoria, “Trovati una p. del tuo stesso colore”. Hanno una forza incredibile, queste donne dell’est e il ragazzo, ancora appiccicato al muro, ha un’espressione sbigottita. Sa, per precedenti esperienze nel campo delle pubbliche relazioni, che non deve muovere un muscolo, né tanto meno aprire bocca. Allora la ragazza si butta in mezzo, urlando in faccia alla genitrice: “Sono maggiorenne e faccio quello che mi pare”. Sbagliato. In Russia non fischia più il vento della Rivoluzione, ma la bufera infuria alla grande. La madre molla il negretto, afferra la biondina per i capelli, le ammolla con metodo una serie di destri sul costato e la scaraventa in macchina a calci nel generoso e ben fasciato sederino. E con una sgommata l’auto sparisce.

Il ragazzo ancora sotto shock è fermo a cercar di comprendere l’accaduto. I suoi pensieri vengono però interrotti da un uomo di mezza età che incalza: “Che te frega, cioccolatino, te s. la figlia, ch’è pure una bella f.”. Il giovane romano di origine somala rimane perplesso, con lo sguardo ancora incredulo perso nel vuoto, ma già un accenno di comprensione post-moderna nel fondo del cuore.

Il seguito è altrettanto drammatico e nel contempo segnato dall’epoca: lei scapperà di casa per un paio di mesi, fino a quando entrambi non si saranno stancati della relazione. Niente di durevole, tutto fast-food e chilometri zero.

A parte un certo gusto per l’autoironia e il volare basso, i personaggi sono tutti veri, presi dalla strada; anche il cinquantenne.

Quando penso alle discriminazioni, mi vengono sempre in mente quelle scene, quegli attimi in cui qualcuno mi riversa addosso le sue paure, le sue insicurezze. Quando penso alle discriminazione, ho però sempre buone speranze per il futuro, ostinandomi a presumere che le nuove generazioni siano più preparate dei nonni, dei padri, delle madri, e di noi, che già di nostro stiamo un bel po’ avanti. Mi piace rimuginare che possa vigere un nuovo pensiero, a dispetto della globalizzazione: sentirsi cittadini del mondo, cittadini della libertà. La libertà di scegliere e di non scappare.

Il risultato sarà “La cena”, un corto che narra di alcuni ragazzi d’origini varie, ma romani d’adozione, e del loro primo incontro con le famiglie delle rispettive ragazze. Si ride piangendo o si piange ridendo. Come preferite.   

Questo articolo del 2014 nel 2018 questo racconto diventa il soggetto del cortometraggio “Indovina chi ti porto per cena” vincitore del bando “Migrarti” promossa dal MIBACT e UNAR, grazie alla collaborazione della Goldenart Productione & Wellsee in partnership con l’associazione NIBI acronimo di Neri Italiani Black Italians