Last updated on 28 Marzo 2021
Affrontare i propri demoni non è facile. Ho sempre cercato di sottrarmi alla memoria, ho sempre omesso ciò che fu. Inizio questo percorso a fatica, tra pianto e risata. Tutti noi ci lamentiamo, tutti noi abbiamo avuto momenti brutti, e ricordi difficili, ma questa roba è differente, è qualcosa che covo nel profondo senza averle mai dato sfogo. Pianto triste, rabbioso, risata malinconica che non riesco a far smettere. Ci sono immagini che mi passano nella mente, e mi fanno tremare. Non pensavo di avere dentro tutto questo dolore, credevo di averlo accantonato, spinto in uno sgabuzzino per sempre.
Eccola, un’immagine: mia zia, Nafisa. Pronuncio il suo nome, così, senza rendermene conto e i brividi mi pervadono. Eccolo, mio nonno, alto, fiero, cosi forte, sicuro di sé, rassicurante. Lui, più di tutti è quello che purtroppo meno ricordo. La cui immagine è meno nitida. Lo vedo che mi raccoglie da sotto il letto e mi parla: “Figlio mio, fatti forza, stringi i denti, Dio ci ha fatto tutti differenti fuori ma uguali dentro. È la vita e tu devi essere forte”. Ora non so se quelle parole sono un ricordo vero o uno di copertura, una suggestione. Me lo porto da un po’ e spesso ci penso. Tuttavia, a ben vedere, quelle parole sono una variante di uno storico slogan pubblicitario: “Dio ha creato gli uomini diversi, Colt li ha resi uguali”. Beh, può anche essere, e non mi sorprenderebbe se mio nonno fosse stato influenzato da quella pubblicità. Le armi vanno per la maggiore, in Africa.
Quando partii dall’Etiopia per raggiungere l’Italia, sapevo a memoria tutti i nomi delle armi, tant’è che mia madre, per convincermi a partire, mi raccontò la balla che quello era un Paese dove non c’erano armi e regnava la pace. Ciò che vidi per primo, però, appena sbarcato a Fiumicino, fu un carabiniere
armato di mitra. Le mie prime parole in Italia furono: “Bugiarda! Bugiarda! Sei una bugiarda!”. Poveretto io, poveretta mia madre … e poveretto anche quel carabiniere. Non poteva capire quel che dicevo, ma intuì il problema e nascose l’arma. Da bambino ero incazzato con mio nonno e con mia madre, i due responsabili di questo inganno. I due che mi avevano allontanato da mia nonna, colei che mi aveva sempre fatto da mamma. Penserete che io sia uno sciocco, un debole, un “indiano”.
Indiano? Mia madre mi chiamava in questo modo, quando piangevo, come uno di quegli attori melensi di Bollywood, specializzati in lamenti continui.
Questo pensiero forse è ciò che frena il mio pianto. Non sono un piagnucolone, non sono un ndiano! I ricordi sono cosa mia, solo mia, e da anni mi ossessionano a tratti. Digrigno i denti, fin da bambino, e Giorgio, mio fratello, col quale dormivo nella stessa stanza, spesso si svegliava sbraitando “Amin, basta!”. La notte è come se rivivessi il passato per poi scordarmelo la mattina. Crescendo, ho imparato a dormire sempre più tardi. Così, mi godo un po’ di ore ogni notte. A volte, con rabbia, cerco di ricordare i volti di mio nonno e di mia nonna. Di quelli che chiamavo papà e mamma. Vedo mia nonna – grassa, sdraiata sul letto, cieca, cogli occhi celesti dovuti al diabete – e sento la sua voce che mi chiama: “Mohamed, chalii! ” (vieni, in somalo).
Sento un rumore di chiavi. Sento il portone di casa che si apre. È lei, mia madre. Arriva sempre nei momenti meno opportuni. È appena tornata dalla Svezia, ha passato dieci giorni da suo marito, un amico d’infanzia ritrovato sette anni fa. Cerco di asciugare le lacrime, provo a calmarmi mentre sento la sua voce: “C’è qualcuno in casa?”. Come il solito, non bussa ed entra in camera mia. Sto con la testa china. Cerco di nascondere il volto. Mi faccio forza e la guardo. E di nuovo giù con il pianto. “Che succede, Amin! Perché piangi!”. Non capisce. Mi studia con quegli occhi profondi. Le dico: “Ti voglio bene, mamma”. E per la prima volta non riesco a mentirle e le spiego la situazione. Sembra non capire, come sa fare lei, ma questa volta l’ho vista dentro e mi sono reso conto che soffriva. Però, come solito, ha cominciato subito a buttarla sul nostro pessimo rapporto madre-figlio, sul fatto che non la cerco, che non la vado a trovarla, che non la chiamo. E poi di nuovo lareligione: “Prega e lasciali andare! Chiudi questo computer, lasciali andare! Prega per loro ogni notte!”. E poi, dopo una pausa, guardandomi negli occhi: “Ti compro il Corano tradotto e ti insegno le preghiere che devi dedicargli”.
Ecco, qui, ritorno in me e i sentimenti si spengono. La religione, quella religione! A casa, di corani tradotti ne ho a mucchi. Nascosti, perduti, buttati. Sono stati la causa di ansie da cui non riesco a liberarmi. E dire che mia madre è la più moderata tra le donne somale che io conosca! È una donna relativamente occidentalizzata e mio nonno, imam, le ha dato una educazione religiosa moderna. Tuttavia, la bugia più grande della mia vita è stata quella di non dirle che della religione me ne fotto, che sono agnostico. A 20 anni ho cominciato a mangiare il maiale e a bere alcolici. Cosami ero perso! Ricordo quando mia madre mi raccontava di un suo fratello, un colonnello dell’esercito, che era andato in Russia e dopo anni, al suo rientro, aveva portato con se un amore sviscerato per l’alcool. La tesi dello zio era semplice e lineare: “Qui, in Somalia, bere potrà anche fare male, ma in Russia ti riscalda il cuore!”. Tutti i miei zii erano grandissimi paraculi, che non riuscivano a seguire le
regole, e manco ci provavano.
Ora qualcosa sta tornando a galla. Mia nonna e mia madre sono uguali, come due gocce d’acqua. Me ne accorgo solo ora. E la conferma arriva da lei. Quando le dico che mi ricorda nonna, lei mi guarda a bocca aperta, lasciando nell’aria un silenzio che ti entra nel profondo. Poi, dopo quel momento di studio, come se volesse capire quanto ricordavo, mi dice che su, in Svezia, la chiamavano Nun, il nome di mia nonna. Mi guarda e cerca di capire se ora ricordo e quanto, ma vuole conferme. Dopo
una veloce descrizione, parlando a bassa voce, con le parole che escono pian piano, una alla volta, mi dice: “Allora, non hai dimenticato tutto … ”. Dopo qualche abbraccio e un “ti voglio bene”, decido di uscire a comprare le sigarette. Lo so, era passata solo per qualche minuto, ma non riesco a reggere il suo sguardo. Per una vita, ha cercato di farmi dimenticare il passato.
Eccoci, ora sono un po’ più tranquillo, mia madre è andata via, nel frattempo sono arrivate mia sorella e mia madre Teresa. Il pianto sembra essersi fermato. Forse ho finito le lacrime. Saluto e mi rimetto a scrivere, ho fame di ricordi. Mia nonna, ora la vedo. Le toccavo sempre il tricipite, un muscolo che si era fuso col grasso, e mi divertiva vederlo ondulare. Ricordo che mi addormentavo accanto a lei toccandole l’orecchio. Nessuno mi poteva sgridare, ero il viziato di casa. Mi hanno sempre raccontato la mia storia, ma mai un ricordo, ora invece la mia mente riesce a vedere nitidamente il momento in cui mi nascose sotto il letto per non farmi trovare dai guerriglieri. Ero solito andare da lei, mia madre non c’era e lei mi coccolava, mi chiamava guardando il soffitto con lo sguardo perso. Non vedeva, ma riusciva sempre a sentirmi entrare. Di mio, ci provavo sempre a farle una sorpresa, ma era una missione impossibile. Sempre mi sentiva entrare e m’invita ad andare da lei. Ricordo che mi scaraventavo su di lei spalmandomi sul suo grosso ventre.
È arrivato anche mio padre. Mia madre l’ha chiamato, sicuramente, e gli avrà raccontato tutto, ne sono sicuro. Lei fa la forte, da sempre ha cercato di fare sia da madre sia padre, a volte sbagliando alla grande, anche lei insicura su come comportarsi con me e con se stessa. Pure essendo qui da 26 anni, ancora non parla bene l’italiano. È che, in realtà, non le interessa. Il suo desiderio è tornare in Somalia. Non ha mai pensato di vivere qui per sempre ed esce solo con gente somala. Anche se
da bambino mi toccò assistere a tantissimi matrimoni – e la faccenda mi faceva sentire sempre fuori posto, mentre adesso la cosa m’incuriosirebbe – il mio rapporto con la Somalia si riduce a poco e niente. E anche da bambino … Ricordo una volta che andai da mia madre e le dissi: “Ascolta, mamma, parlo somalo: cucchiaio …televisione … pallone … frigorifero …”. Infatti, tutte le parole che non si riferiscono alla vita tradizionale sono italiane e fanno ormai parte integrante della lingua somala. Per quanto mi riguarda, basta quella parte lì di vocabolario a definire il mio essere
somalo
La mia famiglia non è semplice, lo so, assieme abbiamo dovuto inventarci nuove modalità di convivenza. Io, Chiara e Giorgio, mio fratello e mia sorella. Cresciuti con due famiglie differenti ma unite nel quotidiano. Italiani e somali, europei e africani, cristiani e musulmani. Quello che ci ha uniti, pur essendo radicalmente diversi, è stato volerci sempre bene, e confrontarci sempre con pazienza, senza mai mollare il pezzo.
Sono chiuso in camera, mio padre entra. Ha gli occhi che parlano, di quelli che sanno, ma hanno la pazienza di aspettare. Mi guarda e mi saluta. Ci guardiamo e capisco che ormai non ho più quella corazza che mi ha protetto finora. Ho gli occhi rossi, umidi. M’incoraggia a sfogarmi: “I veri uomini sanno piangere, Amin”. Poi mi dice che è lo scrivere a fare quell’effetto. Che lui lo sa. “È il modo migliore per capire se stessi”. La cosa mi rassicura. È quel che mi ci voleva in questo momento di metamorfosi. Lo lascio e vado a fumare in giardino.
Perché? Perché è tornato adesso tutto questo dolore? La colpa è anche sua, di zia Nafisa, morta tre anni fa, immigrata una prima volta dalla Somalia all’Italia e una seconda volta dall’Italia alla Germania. L’ho odiata per questo, mi aveva abbandonato come avevano fatto tutti gli altri, la nonna e il nonno. In Africa i parenti diventano la mamma o il papà all’occorrenza e lei lo era stata dopo aver lasciato nonna al suo destino infame, accompagnata da due zie. Zia Nafisa era diventata mia madre. La ricordo il giorno che sapemmo della morte di mio nonno. Ricordo che io e zia ci guardammo e ci abbracciammo piangendo assieme. Quel dolore lo condividemmo, io e lei, lasciando mia madre lì sola nel suo. Eravamo io e zia ad averlo visto, vissuto, condiviso il dolore della speranza e della separazione. Pensando a lei, mi ritorna alla mente quando è morta. Sì, questo pianto è lo stesso. Ora che cerco di ricordare capisco molte cose.
Devo uscire, non riesco per colpa del mal di testa. Tutto e subito. Ho fame, voglio
ricordare e non scappare più, ma tutto, così, subito, è troppo.
Mi sono preso due giorni, dedicando tutto il mio tempo ad altro, sperando di spegnere
il fuoco che ho dentro. Fuori, in giro, sono un leone, ma appena leggo questi appunti,
queste visioni, divento un agnello. Penso a tutta questa tragedia dei migranti e alle
frasi che ho sentito fuori. La gente parla senza sapere cosa sia la vita, il dolore, il sacrificio, lasciare i propri familiari alla mercé del fato e parla per egoismo, per stupidità, per paura, perché ha una lingua in bocca. I giovani pensano di sapere tutto, di conoscere la guerra grazie ai videogiochi, parlano solo del loro malessere, o del benessere fittizio che vorrebbero, senza accorgersi che hanno tutto gratis. Senza possibilità di scelta, però. La foto che mi ha toccato più di tutti in questi giorni è stata la foto del bambino morto in spiaggia. Quella foto mi ha fatto e mi fa malissimo e tutt’ora non so perché devo fermarmi per calmarmi. Rabbia e tristezza infinita, accompagnata dal pianto. Foto di gente morta, annegata, ne ho viste tante in questo periodo, ma quella foto ha riacceso qualcosa. Potevo essere io, quel bambino disteso sulla sabbia!
Ora capisco una parte nascosta del mio dolore: avere oggettivamente abbandonato
mia nonna alla sua sorte. Una rabbia mi pervade assieme alle lacrime. Capisco anche
me stesso, soffro di smania, non riesco a star fermo, a trovare la mia stabilità interna,
non riesco a vivere in pace, devo muovermi o fare qualcosa, forse è la paura della
guerra e della fuga. Stare fermi equivaleva a morte certa! Ho sempre avuto paura
della morte, fin da bambino. L’apice lo raggiunsi quando chiesi a mio padre se stavo
per morire. Avrò avuto sette otto anni. Ero disteso sul letto e piangevo. “Che hai?” mi
chiedeva mio padre. “Ti è successo qualcosa? A scuola … per strada?”. Alla fine,
confessai. “Sto per morire, papà! Io non ho mai niente, non mi date mai medicine!
Giorgio e Chiara hanno sempre l’influenza! … È grave, vero?!”. Quanto mi
mancano, quegli anticorpi! Ogni tanto ripenso a quella volta che caddi in acqua al
porto di Fiumicino. Quel giorno ero con amici di famiglia. Quando mi tirarono su,
bagnato come un pulcino, erano tutti preoccupati. Mi portarono subito da un dottore, il quale, da bravo romano, li tranquillizzò con una battuta: “ Je rimbalzano, al negretto, i batteri de Fiumicino!”.
Era una bella comitiva, quella. Gli uomini mi volevano sempre appresso da quando
uno di loro mi aveva portato al parco ed era tornato con i numeri telefonici di cinque
pupe. Ero un’arma di distruzione di massa per i single! Nei week-end, la coppia fissa
era composta da Roberto e Claudia. Mi portavano in barca, ai Fori, in bicicletta agli
Acquedotti romani, alle Tombe latine, ovunque ci fosse qualcosa di bello da vedere.
Vidi nascere anche la loro prima figlia, Bianca, bella e molto affezionata. Quando
toccava riaccompagnarmi a casa, dovevano farlo di nascosto altrimenti Bianca non la
smetteva di piangere.
Ogni tanto, invece, mi prendeva con sé zia Nafisa, che lavorava come badante da una donna anziana. Dormivo con lei e la notte guardavamo un sacco di film. Zia aveva una passione per gli horror e la fantascienza. Ricordo ancora quando vedemmo “Alien”. Mi stringevo a lei dalla paura. Ogni tanto, però, nella notte fonda, sentivo imprecare la vecchia. Allora zia si alzava per aiutarla e quella la riempiva di parolacce. Il mattino e il pomeriggio giocavo sempre con Wolf e Black, due pastori tedeschi che impazzivano per me. Zia Nafisa, invece, aveva una fifa blu dei cani, come in genere tutti gli africani.
Zia e il fatto che non l’ho più rivista, mi ha distrutto dentro per anni, lasciandomi una
cicatrice che ho rimosso volutamente. Scappare è sempre la cosa più facile. Il giorno che morì ero alla presentazione di “Good Morning Aman”, allo Scalo San Lorenzo, assieme a Claudio Noce, il regista. Dovetti ripiegare a casa con dei lacrimoni che mi accompagnarono per tutto il viaggio sull’autobus. Ora mi rendo conto che dovrei andare da lei, in Germania, sulla sua tomba, a salutarla per l’ultima volta. Mia madre ci andò a suo tempo, da sola. Io non potei partire a causa dei documenti di viaggio che non ho. La mia persecuzione! E che cazzo! Né somalo né italiano, con il permesso di soggiorno sempre in rinnovo! Quante file ho fatto al commissariato! Quante volte mia madre ha pianto per un pezzo di carta che non arrivava, a volte scaduto oppure da rinnovare di nuovo. E poi sbagliano sempre i nomi, cazzo! E anche a scuola non bastava il colore della pelle a ricordarmi che ero diverso dai miei compagni, erano anche i documenti richiesti per i viaggi fuori dall’Italia a rammentarmelo, e a rendere concreta la convinzione di molti miei compagni che ero
un’altra cosa rispetto a loro Zia Nafisa.
È sempre presente nella mia mente: bella, affettuosa, semplice, buona, sorridente. Lei, che aveva condiviso con me il dolore più grande che una persona possa provare, quella di perdere il padre e la madre. Mia madre era volata alla volta della Germania senza dirmi niente. Era piena di sensi di colpa. Lei e zia non si sentivano da un po’. Il tutto era nato perché mamma aveva discusso con lei, che non poteva avere figli e voleva fare l’inseminazione artificiale. “Adotta, piuttosto!” le diceva. Ragionandoci, penso che per zia non fosse proprio possibile. Come poteva mia madre chiederglielo una seconda volta?! Provate a pensare cosa vuol dire prendersi cura di un bambino, crescerlo come un figlio per anni, e poi, un bel giorno, sentirsi dire che devi restituirlo alla madre legittima. Il nostro distacco, lo accusai come poche altre cose al mondo. Quando arrivai in Italia, chiamavo spesso mia
madre per nome, Hawa. Una volta, le presi di santa ragione per questo, allora le dissi che non era mia madre e che non volevo stare con lei. Il nostro non è mai stato un rapporto facile.
Mio padre ha ragione, non sfuggi alla scrittura! Ho sempre avuto una memoria fotografica. Sono legato all’immagine. Tuttavia, la fotografia di un istante può ingannare la mente, modificando il reale significato del ricordo. Il sentimento, però, rimane e quando ti parla da dentro non c’è niente di più forte. È vero, la scrittura non perdona, ti pone in ascolto, ti sconvolge, ti mette a nudo con tutti i tuoi difetti. Con la paura di rivivere il dolore. Ora invece sono avido, voglio rivivere ciò che ho perso.
Spesso leghiamo al dolore la parte negativa della vita, qualcosa da dimenticare, invece il dolore è ciò che ci caratterizza. Io sono ciò che sono grazie a ciò che ho vissuto e provato.
Ora mi torna in mente Mattia, un mio vecchio amico dell’asilo, un ultras della Roma, un coattello di Trastevere di stampo fascista. Mattia ed io ci siamo rivisti dopo anni e la prima cosa che mi ha detto è stata: “Amin, sei sempre stato troppo buono, lo sei sempre stato. Cazzo, ancora sei cosi? Impara a esse n’po’ più stronzo!”. Come si fa ad essere un po’ più stronzo? Le circostanze vorrebbero insegnarmi che è molto meglio se mi concentro su di me e sfrutto tutto ciò che mi trovo davanti. Però, ho sempre in mente la storia di Enea che porta Anchise sulle spalle mentre fugge dalla
città di Troia in fiamme. Il più forte che si sacrifica per il più debole. Nel tragitto
dalla Somalia fino in Etiopia, l’unico a prendermi in braccio era mio nonno, un
80enne.
Il suo detto era: “Se qualcuno deve morire, meglio che sia il più vecchio”.
Ma mio nonno non era il più debole, anzi! Pensate, mio nonno ha guidato una carovana armata fuggendo dalla guerra civile, ha percorso 450 km a piedi, portandosi in braccio un bambino di tre anni, proteggendolo dai tutti i pericoli in cui si imbatté. Come si può essere stronzi, quando si ha un tale esempio? Da sempre sono stato cresciuto con la consapevolezza che alla fine mia madre sarebbe tornata giù in Somalia per sempre. Da sempre sono cresciuto sapendo che infondo lei sognava il mio ritorno.
Ha sempre sperato che io facessi studi importanti, non per costruirmi un futuro qui, ma per portare la giù il sapere dell’occidente. Beh, mia madre non ha fatto i conti con me! Lo porterò, il sapere, ma non sarà quello che lei ha in mente! Sarà un sapere critico, e spero anche cinematografico! Un sapere che metta a nudo tutte le contraddizioni, le miei e le loro!
Un’altra cosa che mi ha formato è il Celio Azzurro. Il Celio è una scuola materna situata di fronte al Circo Massimo. Quando arrivai in Italia non parlavo, non socializzavo, giocavo poco e soprattutto sorridevo poco. Per niente. Il mio unico momento di relax da quella tristezza era la tv. Con il tempo migliorai grazie alla mia famiglia, al Celio e ai cartoni.
Quando arrivai in Italia, Teresa, la moglie di mio padre, in quel periodo si trovava in carcere per vecchie storie politiche relative agli anni Settanta e io cominciai ad inserirmi nella mia nuova vita con mia madre e due bimbi, un maschietto più piccolo di me di 4 anni e una femminuccia di 2. Quando mamma Teresa uscì, di lì a poco, mia madre mi disse che mi avrebbe mandato in collegio, per non disturbare. Cazzo mi aveva appena ritrovato e già mi stava liquidando! Beh, mamma Teresa, che
neanche mi conosceva, la fermò e le disse che come lei l’aveva aiutata così ora avrebbe aiutato noi. In fin dei conti, stavano tutti quanti mettendo in atto la vecchia pratica africana in cui tutti possono trasformarsi in genitori. Così, un giorno, senza rendermene conto, chiamai Teresa mamma e Maurice papà. Avevo una famiglia.