Il mio nome è Nadifa. Sono nata in Somalia all’inizio degli anni Cinquanta.
Ho vissuto la decolonizzazione, il nazionalismo, il grande sogno del
rinascimento africano. La mia famiglia era composta da un padre, imam e
avvocato, da quattro mogli e da cinquanta figli. Ho avuto un’educazione
islamica, ma anche moderna di stampo occidentale. Mi sono diplomata, ho
fatto due anni e mezzo di servizio militare, ho lavorato per il Ministero degli
Esteri. Nel 1989, quando la situazione politica ha cominciato a deteriorarsi,
dopo essermi separata da mio marito e aver lasciato mio figlio Hassan di
due anni con mia madre, mi sono trasferita in Italia e, tramite un mio cugino
medico, ho trovato lavoro come babysitter.
A quell’epoca la Somalia aveva normali relazioni diplomatiche con tutti i
Paesi del mondo, l’Africa e il Medio Oriente sembravano ancora in via di
sviluppo e il fondamentalismo religioso sfociava raramente nel terrorismo.
Per raggiungere Roma, non attraversai il Mediterraneo con un barcone di
fortuna: presi un aereo a Mogadiscio e sbarcai a Fiumicino.
Lavoravo dalle 15.30 alle 23.30. Accudivo una bimba di pochi mesi,
Francesca. I genitori, una ragazza della mia età e un uomo un po’ più
grande, erano operatori sociali, in servizio il pomeriggio e la sera presso un
centro di accoglienza per senza fissa dimora. Arrivavo a casa, nella zona
dell’Alberone, ci salutavamo, prendevamo un caffè e poi loro uscivano.
Dopo di che mi occupavo della bambina. La portavo a spasso, giocavamo, le
davo da mangiare, la pulivo, la mettevo a letto. Mi piaceva osservare allo
specchio il contrasto del colore della sua pelle, così bianca, col colore della
mia, così nera. Piaceva anche a lei. Era uno dei nostri passatempi preferiti.
Quand’era quasi mezzanotte, la madre tornava. Il padre, mai. Il suo orario di
lavoro era più lungo e spesso faceva il turno di notte. Per guadagnare di più,
mi dissero. Era una famiglia normale.
Qualche mese più tardi, Giovanna, la madre di Francesca, rimase incinta e
all’inizio del 1991 nacque Luca. Appena lo vidi, così fragile e dipendente,
capii che era anche figlio mio. Capita così, dalle mie parti. Hassan, mio
figlio, era anche figlio delle mie sorelle di parte di madre. Specialmente di
Muna, la mia sorellina minore. Sono famiglie allargate, le nostre, e nel bene
e nel male nessuno rimane mai solo. Presi Luca in braccio, lo toccai, lo
annusai, e compresi che era successo qualcosa, che un giorno dopo l’altro,
un gioco dopo l’altro, un caffè dopo l’altro, si era definito un nuovo legame
che travalicava i precedenti. Non ci dicemmo nulla, Giovanna ed io. Non ci
dicemmo nulla nemmeno con Ugo, il padre. Era tutto evidente dal modo con
cui giocavamo con Luca e Francesca, insieme, prima che Giovanna e Ugo
partissero per il lavoro. Non c’era alcuna differenza nel trattare i bambini,
tra noi. Era tutto, però, a livello non detto. Peraltro, le parole non sono
sempre gli strumenti migliori per comunicare, cariche come sono di
significati molteplici, spesso contraddittori. Uno sguardo, una stretta di
mano, un dono possono qualche volta esprimere meglio i sentimenti più
profondi. Direttamente. Senza mediazione. Da cuore a cuore.
Iniziò un periodo particolarmente felice. La nostalgia per Hassan, per la mia
famiglia, per il mio Paese, rimaneva. Anzi, forse era anche più acuta.
Tuttavia, e sempre con maggior forza, la mia vita in Italia aveva perso
l’amaro sapore dell’esilio. Per me era come se quella famiglia italiana, per il
tramite dei bambini, per l’amore che Luca e Francesca riversavano su di me,
avesse stabilito con la mia famiglia somala una specie di prima alleanza, di
patto di sangue. Ora c’era un fiume sotterraneo che scorreva da Mogadiscio
a Roma – ancora un wadi, forse, uno di quei torrenti effimeri che sembrano
non esserci e poi, all’improvviso, s’ingrossano e travolgono ogni cosa – e le
nostre reciproche radici cominciavano ad abbeverarvici. Quando
raggiungevo l’Alberone, non mi sentivo più a casa d’altri ma a casa mia.
Un pomeriggio, Luca aveva poco più di un anno e Francesca poco di più,
quando arrivai a casa trovai Ugo che giocava coi bambini. Mi guardò e capii
che era successo qualcosa.
– Dov’è Giovanna?, domandai.
– Ti devo parlare, Nadifa, mi rispose.
Lasciammo i bambini sul divano in salotto, accendemmo la televisione e
mettemmo un cartone. Wile Coyote, ricordo. Poi ci spostammo in corridoio.
– Cos’è successo a Giovanna?, chiesi ancora.
Allora Ugo mi prese le mani. Non l’aveva mai fatto. Era sempre stato di una
estrema correttezza. In quel momento aveva gli occhi di un uomo che deve
dire una cosa e quella cosa farà si che nulla, mai più, rimanga come prima.
Ugo parlò per dieci minuti. Prima mi disse chi era. Mi raccontò che era stato
il comandante di un’organizzazione politico militare di sinistra, che aveva
combattuto negli anni Settanta contro lo Stato e contro i padroni. Che era
stato arrestato dieci anni prima e che tuttora era carcerato. Che poteva uscire
dalla prigione unicamente per lavorare e che in casa poteva rimanere solo
per il pranzo. Man mano che Ugo parlava, tutta una serie di piccole
incongruenze che mi aveva stupito nel corso dei mesi cominciò a chiarirsi.
Soprattutto il fatto che Ugo non ci fosse mai, fuorché nel primo pomeriggio,
e che la famiglia avesse una vita totalmente regolata sull’orario di lavoro.
Poi Ugo mi parlò di Giovanna. Mi disse che anche lei era stata un’esponente
di quell’organizzazione, che era rimasta per tanti anni in carcere e che ora,
proprio ora, all’improvviso, doveva ritornarci per un lungo residuo pena.
Cinque anni. Si poteva sperare solo su un’eventuale condizionale, che
poteva esserle concessa al più presto tra tre mesi, al più tardi non si sapeva
quando. Mi raccontò che non avevano parenti a Roma, che non sapevano
come fare, come gestire la casa in maniera tale che i bambini non si
accorgessero di nulla. Dopo di che Giovanna uscì dalla camera da letto.
Aveva una valigia in mano ed era pallida come l’abito di un morto. Aveva il
viso scavato e gli occhi di una donna che ha pianto ogni lacrima. Ci
guardammo, io e lei, e mi sentii dire che non c’erano problemi, che avrei da
quel momento lasciato l’appartamento in cui abitavo. Che da noi, in
Somalia, finire in carcere non è un disonore ma una spiacevole
consuetudine. Che ci pensavo io ai bambini e alla casa. Che soprattutto non
doveva preoccuparsi, perché, inshallah, sarebbe tutto finito presto. Che
avrei pregato il mio Corano perché tutto andasse per il meglio. Giovanna e
Ugo non mi toglievano gli occhi di dosso. Lei disse solo una cosa:
– Come faccio ora coi bimbi?, girandosi poi come per dirigersi verso il
salotto.
– Non andare!, le dissi. Non guardarli, non baciarli! Lo so cosa vuol dire …
Esci di casa, subito. E fai quello che devi fare.
Non ci abbracciammo, io e Giovanna. Ci toccammo solo con la punta delle
dita. Subito dopo li buttai fuori di casa.
Andai subito dai bambini e dissi loro che d’ora in poi saremmo sempre stati
insieme, che avremmo giocato senza mai smettere, che avremmo fatto festa
dalla mattina alla sera.
– Che bello! – risposero. E dov’è la mamma?, chiese Francesca.
– È uscita per andare a lavorare. È andata all’Ostello, risposi.
Li guardai. Poi mi sedetti e pensai: ho fatto la cosa giusta. Non mi sono
persa per strada. E nel mio cuore ringraziai Iddio. Ugo tornò pochi minuti
dopo. Mi diede un elenco di nomi. Amici di Roma, da contattare per
qualsiasi problema.
– Sanno chi siete?, domandai.
– Sì, sono quasi tutti anche loro nelle nostre condizioni o lo erano fino a
poco tempo fa.
Mi diede anche dei soldi per le prime spese.
– Ora devo proprio andare, continuò. Non posso tardare, devo raggiungere
il lavoro e poi, entro mezzanotte, il carcere. Posso tornare solo domani a
mezzogiorno.
– Non ti preoccupare, dissi. Ci sono io, adesso.
E questa volta, io e lui, ci abbracciammo.
– Grazie!, insistette.
– No, niente grazie!, risposi. Tu sei mio fratello ed io tua sorella.
E per quel giorno tutto finì lì.
Dopo di che ebbe inizio uno strano periodo. Agivamo, Ugo ed io, nell’unico
modo possibile o per lo meno nell’unico modo in cui eravamo capaci: in
maniera leggermente schizofrenica, ma con un sano principio di riduzione
del danno, ci comportavamo un po’ come una compagnia di saltimbanchi,
sempre sul pezzo, improvvisando se occorreva, e un po’ come un
commando in missione al di là delle linee nemiche. Ogni giorno, a
mezzogiorno, facevamo un briefing: come stanno i bambini, come
correggere il tiro su dov’è la mamma, come sta Giovanna, come procede la
richiesta di condizionale, se occorono fondi, medicine o altro. Poi Ugo
usciva di scena e arrivavano gli amici, specialmente le amiche. Una, due,
tre, tutti i giorni e tutte zie. C’erano zia Marta, zia Franca, zia Giuliana e zio
Marco. Zia Paola e zia Fabiola. C’erano anche zia Carlotta, zia Lucrezia, zia
Marcella e zio Aurelio. E fino a sera, e spesso anche dopo cena, portavamo i
bambini a feste improvvisate, a picnic sull’erba, a teatri di burattini, a
riunioni per solo donne, a mercatini dell’usato, a festival del cinema, a sagre
paesane. Quando Francesca e Luca tornavano a casa, cadevano
addormentati nei loro lettini, cotti dalle novità, dal frastuono e dalla fatica.
Facevamo di tutto affinché i bambini vivessero in un lunapark infinito, con
alcuni momenti di pausa ma fuori dalla consueta normalità in cui le madri
accudiscono i figli. Ogni tanto, chiedevano della mamma.
– Poi arriva, tra poco – rispondevo.
E cambiavo subito discorso.
– Dov’è finito il signor gatto?! – domandavo con una voce buffa. – Sarà
ancora là ad aspettarci, dove l’abbiamo visto ieri mattina?!.
E via di corsa a cercare il gatto, il cane, il topo, il nanetto che abita sugli
alberi, quello che si nasconde nelle grondaie, la fata turchina e sua sorella la
fata sciocca ma tanto bella. Ugo era bravissimo a inventarsi questi
personaggi. Io li mischiavo a quelli che avevo incontrato da bambina: Ali
Urai (Ali il puzzone), Ali Arfai (Ali il profumato), Mussa la scimmia
dispettosa, il leone probo e la iena scostumata. Insomma, vivevamo alla
giornata, programmando al meglio le nostre possibilità. Pensavo solo a Luca
e a Francesca. Sostenevo Ugo che sosteneva a distanza Giovanna e lavorava
per la sua scarcerazione. Ero totalmente presa a mantenere vivo il mondo
parallelo che avevamo creato ad uso e consumo dei bambini quando,
d’improvviso, venne mio cugino medico ad ingarbugliare di nuovo la
situazione.
Uscii da Rebibbia, inforcai la moto e partii al volo. Prendendo la Togliatti e
poi l’A 24 direzione centro guadagnavo dieci minuti sulla tabella di marcia.
Più tempo riuscivo a stare coi bimbi e meglio era. Stavano bene, i pupi.
Erano allegri. Nessun sintomo d’abbandono. Chiedevano sempre della
mamma, soprattutto Francesca, ma con Nadifa avevamo alterato lo spazio e
il tempo. Eravamo tutti e due impegnati a concentrare un mese, un anno
s’era necessario, in una sola lunga giornata infinita. Era un gioco di
prestigio, però, che poteva saltare da un momento all’altro. Un trucco per
sopravvivere in condizioni limite, dello stesso genere che avevamo messo in
scena nel carcere speciale di Nuoro, tempo prima, quando eravamo ancora
in guerra. Una vita fa. Fu il periodo peggiore, quello. Ci avevano tolto ogni
cosa, eravamo in sciopero della fame da un paio di settimane e la nostra
stessa vita era appesa a un filo. Tuttavia, stava per avere inizio il festival del
cinema di Cannes. Allora, mettemmo in scena il grande bluff. Avevo a
disposizione, imboscata in un posto sicuro, una radio a transistor. Ci serviva
per tenerci agganciati alla realtà vera. Così, ogni mattina, quando ci
portavano nei cubicoli all’aperto per i nostri quaranta cinque minuti d’aria,
una specie di circo per animali feroci fatto di gabbie grandi quattro metri per
due, davo il via ad una fantastica surreale discussione sui film in concorso.
Quaranta cinque minuti di commenti critici incrociati degni dei Cahiers du
Cinéma. Eravamo lì, a Nuoro, a fetere, ma eravamo anche sulla Croisette.
Fan culo! Questo gioco ci tenne psicologicamente a galla, e fece impazzire
la parte avversa. Comprai i cornetti al bar sotto casa e salii di corsa fino al
secondo piano. I bimbi giocavano col lego.
– Ciao, papone! – urlarono quando mi videro.
Un altro giorno di guadagnato, pensai.
Poi Nadifa mi prese da parte.
– Tutto bene? – le chiesi.
– Qui sì, Ugo. I bambini sono contenti. E hanno già mangiato. Tutto, anche
le verdure. Più tardi passa zia Paola (erano tutte zie anche per lei) e andiamo
al parco delle tombe latine … È a Mogadiscio che le cose vanno male.
Ci spostammo in cucina e Nadifa mi raccontò che suo cugino le aveva detto
che avevano fatto saltare col plastico la villa dove viveva la sua famiglia.
– Si sono salvati perché stavano tutti giù nel rifugio.
– Come sta Hassan?
– Poco bene. È traumatizzato. Non parla più …
– Cazzo, facciamolo venire qui da noi!
– Non dire parolacce, Ugo! Specialmente ora!
Nadifa era una ragazza moderna, ma anche una con cui toccava tenersi a
bada. Negli ultimi due mesi di stretta convivenza mi aveva messo sotto. Non
mi diceva nulla, ma mi guardava. Era peggio di mia madre, quando alzava
gli occhi e mi sorrideva. Confessavo subito tutte le mie colpe.
– Questa volta, ci penso io, le dissi.
Nadifa ci aveva salvato la buccia. Ora stava a noi, a me e a Giovanna per
procura, darci da fare. Peraltro, adesso eravamo nel mio elemento. O per lo
meno in quello di una volta.
– Sul tuo passaporto c’è anche la foto di Hassan? – domandai.
– No, vale solo per me – rispose.
– Hai un’amica somala, tipo te, con un passaporto con bambino, uno più o
meno dell’età di Hassan?
– Sì.
– Fatelo dare – andai avanti.
Nadifa sorrise.
– Tanto, per voi bianchi noi siamo tutti uguali, come le pecore … vero?
Vero, speriamo solo di non trovare un buon pastore in divisa, pensai.
Prima di andare al lavoro, passai in banca e ritirai tutti i soldi sul conto.
Cinque milioni di lire. Li lasciai nel cassetto della mia scrivania, al lavoro. Il
giorno dopo, prima di passare da casa, andai in ostello e presi il malloppo.
– Nadifa, hai il passaporto?
– Sì.
– Bene, fammi vedere.
Ad uno sguardo distratto, la tizia sul documento, un lungo foulard sul capo a
nascondere quasi i capelli, era uguale a Nadifa. Il bimbo era un bimbo. E poi
aveva il classico testino tondo da somalo, con l’attaccatura dei capelli già
alta sul cranio. Perfetto. Le dissi di chiamare zia Katia. Era una ragazza che
abitava al piano di sopra e che ogni tanto ci aveva aiutato anche lei come
babysitter. Pochi giorni dopo la partenza di Giovanna, Nadifa l’aveva
chiamata e le aveva spiegato la situazione. Quando arrivai a casa, il giorno
appresso, Katia era scesa da noi e mi aveva detto:
– Mica lo sapevo chi eravate, te e Giovanna …
Guardai Nadifa, un po’ ingrugnato.
– No! Ha fatto bene, Nadifa, a dirmi come stavano le cose. Così vi posso
dare una mano anch’io. L’ho detto anche a Carolina, la mia amica. La
conosci, no? È venuta un paio di volte a prendermi la sera quando badavo ai
bambini. Ah, no, è vero … che stupida! Tu, la sera, non ci sei mai. Stai a
Rebibbia!
Non sapevo se piangere o ridere. Poi, mi venne in mente ch’era tutt’una
corsa fino all’ultima meta, e che si vede che andava bene così.
– Di a Katia che ho bisogno di vederla urgentemente. Vai su, non telefonate
da casa.
Senza nemmeno rendermene conto, ero tornato operativo.
– Oggi pomeriggio, telefona da dove lo fai di solito e fai sapere a tuo padre
che gli manderai entro la settimana dei soldi. Che organizzi un “trasporto
protetto”. Scelga lui se per Djibouti, l’Etiopia o il Kenya. L’importante è
che ci sia a fine viaggio un aeroporto da dove tu possa partire col bimbo per
l’Italia. Hai capito?
– Sì.
Il giorno dopo parlai con Katia. Si sarebbe fermata lei coi bimbi fino al
ritorno di Nadifa.
Per farla breve, appena arrivati i soldi per via traversa, il padre di Nadifa, il
vecchio Ibrahim, mise su una carovana armata che da Mogadiscio portò una
parte della famiglia fino a Dire Dawa, in Etiopia. Prima di poter prendere un
mezzo, dovettero farsi più di 450 km a piedi, camminando di notte e
riposando di giorno. Ebbero solo due scontri, uno con un branco di leoni,
che fuggirono ai primi colpi d’arma da fuoco, l’altro contro una banda di
predoni. Dovettero ammazzarne un paio perché gli altri capissero che
facevano sul serio. Hassan continuava a non parlare. Sembrava normale,
solo non parlava. E quel viaggio non gli fece un gran bene. Arrivati a Dire
Dawa, Ibrahim avvisò Nadifa, che subito partì utilizzando il passaporto
dell’amica. Poi, via Djibouti, Aden e Ankara, arrivarono in pochi giorni a
Roma.
Per convincere Hassan ad andare con lei, ormai una sconosciuta, Nadifa gli
raccontò la solita favola del lupo, quella per fregare i bambini.
– Vedrai, a Roma non ci sono uomini cattivi … E poi ci sono due bimbi
bianchi bianchi che non vedono l’ora di giocare con te!
Non aver più paura di finire sotto terra lo allettava, ad Hassan. La storia dei
bimbi pallidi, invece, lo lasciava perplesso. Lo si capiva dall’espressione
dubbiosa, mi raccontò Nadifa. Forse pensava che fosse una malattia, tutto
questo eccesso di biancume. Non aveva mai visto nessuno meno scuro di
Muna, la sorellina di Nadifa, la più chiara in famiglia. Un tipetto molto afro-
americano, genere spigliato, mi sembrava d’aver capito. Quando arrivarono
a Fiumicino, Hassan si mise ad urlare. Aveva intravisto al di là del gate
alcuni militari con i mitra. Quello più vicino capì la situazione e nascose
l’arma. Quando giunsero a casa, i bimbi guardavano un cartone alla
televisione e Hassan rimase a bocca aperta. Non ne aveva mai visti. Fu
amore a prima vista. D’altra parte, era il vecchio Wile Coyote, ed era appena
caduto in fondo al canyon e stava per diventare una fisarmonica. Hassan si
sedette in mezzo a Luca e a Francesca e cominciò tutto così.
Semplicemente. Ormai, l’estate stava finendo e c’erano ottime possibilità
che Giovanna uscisse presto in condizionale. L’arrivo di Hassan contribuì
ad agitare le acque e ne facemmo un cardine del nostro grande gioco a
rimpiattino. Ero contento. Avevo fatto una cosa buona e bella. Buona e bella
per davvero, questa volta.
Mi ero consegnata al carcere di Scandicci, presso Firenze. Qualche mese
prima del mandato di cattura, avevo parlato col giudice di sorveglianza, una
brava persona, e questi mi aveva assicurato che, appena fossi entrata nei
tempi stabiliti dalla legge, mi avrebbe concesso la condizionale. Dopo un
paio di settimane, tra cella di transito e altre sistemazioni provvisorie, mi
collocarono finalmente in sezione e mi diedero un lavoro in lavanderia.
Passavo sei ore al giorno a stirare le lenzuola di tutti i detenuti. Facevo la
bella lavanderina che stira i fazzoletti.
In cella stavo con una colombiana dentro per narcotraffico. Una brava
ragazza, tutto sommato, che ne aveva per vent’anni. Di conseguenza, si era
studiata un’adeguata strategia di sopravvivenza. Lavoro la mattina,
ginnastica il pomeriggio, meditazione trascendentale la sera. Poca
televisione, ché aizza troppo i ricordi. Così, mi conformai anch’io al suo
metodo.
Ugo sollecitava gli avvocati, i quali sollecitavano l’Ufficio di sorveglianza.
Da quel punto di vista, imprevisti permettendo – e potevano essere tanti: un mio trasferimento in un altro carcere, per esempio, o l’affidamento ad un
altro giudice dovendo quindi ricominciare tutta la trafila da capo – stavo in
una botte di ferro.
Ogni giorno ricevevo una lettera da casa, sempre con una foto dei bimbi.
Una al giorno, esclusa la domenica, ché il postino non lavora quand’è festa.
Una performance, quella di Ugo. Era prima dei cellulari, dei selfie.
Avevamo appena superato l’epoca della polaroid. Ugo era maniacale. Le
numerava e le costruiva in modo tale che costituissero, appiccicate alla
parete, messe insieme una dopo l’altra, una rassicurante narrazione. Nelle
lettere, giurando su tutti i santi del calendario, mi assicurava in merito a due
aspetti della situazione radicalmente in contraddizione: mi garantiva, foto
alla mano, che i bimbi stavano bene, si divertivano da matti, e nel contempo
che non si dimenticavano di me. Chiedono sempre di te, mi scriveva, ma
Nadifa è bravissima a deviare il discorso, a dribblare la domanda,
soprattutto ad evitare qualsivoglia risposta. È la Regina delle anguille, è
meglio di Houdini, del Mago di Oz, di Mago Zurlì. Era come nella
filastrocca, però: son contenta di morire ma mi dispiace, mi dispiace di
morire ma son contenta. Aspettavo la posta come le drogate del piano di
sotto agognavano la dose giornaliera di metadone. Poi mi ritiravo nel
bagnetto della cella, mi sedevo sul water, mordevo a sangue l’interno delle
guancie e lasciavo che le lacrime mi bagnassero il seno.
Il carcere è fatto così: giornate che non finiscono mai e, per il resto, il tempo
vola. Le settimane, i mesi non hanno più alcun significato. Alla domanda:
ma cosa hai fatto in carcere tutto quel tempo?, non puoi rispondere che in un
solo modo: niente. A un certo punto, nelle foto quotidiane si aggiunse un altro bimbo.
Era nero come la pece e risaltava sugli altri due, bianchi come la neve. Rideva
sempre anche lui. Insieme, erano la réclame del Paese dei Balocchi. Allora,
pensando a quel che gli era capitato, a quel bimbetto, eppure a come
mordeva allegro la vita, cominciai a credere, soltanto un pochino, che forse
stava succedendo il miracolo e ne saremmo usciti illesi. O per lo meno
ammaccati, ma salvi. Per me, da subito, la consolazione ebbe il volto di
Hassan.
Poteva durare anni. Tutto si risolse in tre mesi e ventitre giorni. Il resto lo
avrei scontato assolvendo alcuni obblighi relativi alla libertà di spostamento
e rimanendo a casa dopo le nove di sera, fino alle sette di mattina. Ma ci
sarebbe voluto un erculeo buttafuori per farmi uscire quando potevo
rimanere coi bimbi. Per rimanere la notte anche con Guido, toccava
aspettare qualche altro annetto. Uscii un pomeriggio di tarda estate. Presi un
autobus di linea e un treno per Roma. Arrivai a Termini ch’era buio. Mi
aspettavano in testa al binario. Guido non aveva detto niente ai bimbi,
perché non si sa mai, meglio non rischiare, poteva capitare qualcosa all’improvviso.
Era andata così bene fino ad allora che non ce la sentivamo
di giocarci tutto all’ultimo momento. Vidi per primo Hassan. Stava in
braccio a Ugo. Poi, subito appresso, Luca in braccio a Nadifa. Com’era
cambiato! Come s’era fatto grande! Per ultimo intravidi Francesca. Dio mio,
pensai, è quasi una ragazzina! Giocava a ridosso di una balaustra, s’era
attaccata con le mani e faceva “nanna-nà”, come soleva dire quando ancora
non parlava ma si faceva perfettamente capire. Appesa, andava avanti e
indietro come se fosse la cosa più seria del mondo. Mi accostai e la guardai.
Sul momento, Francesca non si accorse di nulla. Poi anche lei mi guardò. E
dopo un attimo le venne un singulto e gridò: mamma! E dopo un attimo
ancora mi furono tutti addosso. Anche Hassan. Ero l’appendi-bimbi,
l’acchiappa-baci, la donna più felice del mondo.
Giunti a casa, all’Alberone, abbiamo ricominciato da dove ci eravamo
fermati mesi prima, ma come se Nadifa fosse sempre stata della famiglia e
avesse sempre abitato con noi. Una sorella, insomma. Un’amica, una
compagna. Non ci fu bisogno di spiegare alcunché. Quando poi mi disse che
pensava di mandare Hassan in collegio, le chiesi se era impazzita. Hassan
era figlio nostro e stava assieme agli altri con tutti noi. Punto e basta.
Peraltro, Luca e Francesca si misero a considerarlo un fratello alla velocità
della luce. Anche le zie e gli zii si abituarono velocemente alla faccenda e
dopo un po’ fummo da tutti, ovunque, considerati un’inscindibile unità.
Eravamo la dimostrazione che si poteva fare, non solo nei sogni ideologici
da vecchi comunardi. Che la solidarietà poteva trasformare una situazione
dannatamente ingarbugliata in un’occasione straordinariamente bella e ricca.
A fine corsa, quando mi convinsi ch’era veramente finita, conclusi che n’era
valsa la pena, eccome, d’essere andata in galera perché tutto ciò avesse
potuto succedere.
È passato tanto tempo, ormai. E credo che non tornerò mai più in Somalia.
Non so nemmeno più se è ancora casa mia, l’Africa. Hassan ha ventotto
anni e fa cinema. Si dà anche un sacco daffare per la causa delle seconde
generazioni. Anzi, lui dice sempre “delle prime”: siamo la prima
generazione di afro-italiani, dice. Mi fa ridere: quando mai è stato africano,
lui! Non si ricorda più niente. Quando torna indietro col pensiero, arriva
solo fino a Wile Coyote. Dice sempre che è lui, Wile Coyote, che l’ha
messo al mondo. Che stupido! È un ragazzo allegro, però. Solo di notte fa
brutti sogni e deve portare un apparecchio per non sbriciolarsi i denti. Luca
si è laureato in economia e Francesca all’Accademia di Belle Arti. Ogni
tanto, ci divertiamo ancora col gioco della pelle nera e della pelle bianca, ma
ho il sospetto che lo facciano solo perché mi vogliono bene. Giovanna e
Ugo sono in pensione. Lei suona il piano e lui scrive. Cambiammo casa, ad
un certo punto, perché quella dell’Alberone era troppo piccola, soprattutto
quando Ugo uscì definitivamente di prigione. Abbiamo fatto tutti quanti un
passo avanti e uno indietro. Ho imparato a cucinare la pasta al forno, a
concepire (più o meno) il vostro tempo lineare, a dare valore a cose che per
me non avevano senso. E viceversa. Anche Ugo e Giovanna hanno dovuto
cambiare parte delle loro abitudini. Metà bianca e metà nera, metà europea e
metà africana, metà cristiana e metà islamica, la nostra famiglia ha sempre
celebrato tutte le solennità comandate. Mai un mese senza festa,