lettere somale. soggetto/Racconto

Lettere somale

Esplicita allusione alle Lettere persiane di Montesquieu, il romanzo epistolare scritto nel 1721 in cui il filosofo critica con feroce ironia il regime assolutista francese e, in generale, un assetto sociale e culturale in crisi. Montesquieu immagina due viaggiatori provenienti dalla Persia – due stranieri, anzi lo straniero per eccellenza, il totalmente altro – e descrive attraverso le loro lettere agli amici e ai parenti, colme di stupore e perplessità, l’incongruenza, l’illogicità e la crudeltà dei costumi occidentali.

Un bar nei pressi della Stazione Termini, gestito da Carla, una ragazza romana, e dal suo compagno Amin, un somalo residente a Roma fin da piccolo, perfettamente integrato (scolarizzato, socializzato, acculturato), ma privo di cittadinanza. Amin rifiuta di intraprendere la lunga e farraginosa procedura per diventare italiano. Non vuole nemmeno passare attraverso la scorciatoia del matrimonio con una italiana: si sente italiano, romano, come “tutti gli altri”, e trova sempre una scusa per non affrontare la questione.

Il bar (metafora della contemporanea Agorà, il luogo in cui si fanno, in tutta evidenza, solo “discorsi da bar” come nuovo linguaggio della politica) è frequentato da vari personaggi:

  • Uno zio di Amin, detto lo Zio, un somalo di prima generazione che ha ottenuto la cittadinanza italiana dopo anni di lavoro, ma non integrato, vestito sempre alla vecchia maniera, incapace di parlare un italiano decente e con la testa sempre in una Somalia immaginaria.
  • Un latino-americano, Manuel, “in vacanza” a Roma, in realtà presente per trafficare, che non sa parlare una sola parola d’italiano, ma è italiano perché lo era un suo bisnonno.
  • Due amici di Amin, Fausto e Remo, due ragazzotti perdigiorno romani, buoni ma menefreghisti e un po’ crudeli come sanno esserlo i fresconi con due neuroni in capo e un diploma mancato all’istituto alberghiero.
  • La signora Norma, una professoressa di storia e filosofia in un liceo dei paraggi, preparata quando si tratta di insegnare ai suoi alunni le materie scolastiche, ma come tutti gli altri incapace di esplicitare giudizi sensati.
  • Germano, il tabaccaio della porta accanto, che si dice appartenente a “Noi per Salvini”, a quel genere di roba lì, ma è amico di Amin e dello Zio: loro sono italiani, sostiene, anche Amin che non lo è (e Germano non se ne capacita); sono gli altri che invadono Roma e ci rubano le donne e il lavoro.

All’improvviso arriva al bar un profugo appena sbarcato. È Sadiq, un cugino di Amin, un nipote dello Zio.

[Sadiq è un nome arabo, generalmente tradotto con Amico. Sadiq (arabo) e Zaddiq (ebraico), però, significano più precisamente “giusto”, “colui che mette in pratica la giustizia di Dio”; in altri termini: che non ne sbaglia una. È anche il titolo di una novella satirica di Voltaire: Zadiq]

Sadiq, giovanissimo, ha vissuto fino ad allora a Mogadiscio, una città mezza assediata dai vari Signori della Guerra, aiutato economicamente da Amin e dallo Zio e accudito dal Professore, un italo-somalo, ex insegnante dell’ex liceo italiano della capitale. Ha vissuto praticamente sempre rintanato in una cantina-bunker, studiando dalla mattina alla sera col Professore, in mezzo ai libri, con le cartine dell’Italia risorgimentale e dell’Europa napoleonica appese alle pareti.

Sadiq, quando si presenta al bar, suscita immediatamente una straordinaria meraviglia. L’appena sbarcato, il rifugiato, lo straniero per antonomasia parla un italiano perfetto (persino un po’ troppo perfettino). Anzi, a dire il vero, è l’unico a parlare italiano. Gli altri – gli italiani in varia misura, quelli veri e quelli per finta, quelli così così e quelli non ancora – parlano romano o una lingua bastarda.

Sadiq è gentile, educatissimo, pieno di meraviglia per ogni cosa che vede e che sente. E come Usbek, il principale protagonista delle Lettere persiane, stigmatizza con naturale spirito critico le innumerevoli stranezze, pochezze, mancanze di autonomia espresse dai vari personaggi che animano quello spaccato d’Italia.

Seduto dietro un tavolino, col computer di Amin, Sadiq invia mail al Professore – quasi una sola lunga Lettera somala – in cui comunica il proprio continuo stupore. Non si capacita dell’insulsaggine, della stoltezza in cui sono immersi tutti gli altri personaggi. Nessuno è in grado di fare un discorso filato, di dare un giudizio intelligente su quel che accade. Tutti sono in preda ai “discorsi da bar”. Peraltro, non sanno a memoria una sola poesia di Leopardi, un solo brano della Divina Commedia, neppure l’inno nazionale (a parte la solita strofa, quella che termina con l’inevitabile urlo catartico), nemmeno la professoressa. Non hanno la minima consapevolezza di cosa sia la democrazia, di come si siano sviluppate la storia e la cultura italiana, l’idea di una Europa unita. La professoressa, ben inteso, sa cos’è l’Illuminismo, conosce la storia e la filosofia, ne riconosce gli accenni nelle poche parole cortesi di Sadiq, ma non sa più applicarne i principi alla realtà della vita. Anche lei se la prende con lo Stato, con la UE, con la casta e i poteri forti, e non sa guardare oltre. Anche lei ha buttato il bambino assieme all’acqua sporca.

Phronesis zero: la saggezza, la capacità di deliberare riguardo al migliore dei beni realizzabili (l’Etica Nicomachea di Aristotele), la capacità di conciliare (il Simposio e la Repubblica di Platone) la pienezza del sapere teoretico e la vita pratica nella convivenza civile è totalmente azzerata. E con la saggezza, la politica, la dimensione della vita in comune.

Sadiq si rende conto di essere l’unico a conoscere veramente, e ad amare, la cultura italiana ed europea, a riconoscerne le ricchezze e ad apprezzarne i valori di libertà, eguaglianza e fraternità.

Sadiq si rende conto di essere l’unico vero europeo, in quel bar.

L’ultimo brano della sua lunga missiva sarà: «Professore, mentore mio, ci fosse un gommone che naviga al contrario, volentieri a casa tornerei per coltivare insieme il nostro orto», chiaro riferimento a come termina il Candide di Voltaire.